"La sindaca" si può (e si deve) dire

Di Alessia Grimaldi - Scritto il

 

Tra le questioni linguistiche che dividono di più c'è quella dell'uso dei generi femminili in alcuni termini, specialmente nelle professioni. La motivazione è da ricercare nell'abitudine, poiché per molti anni queste professioni lavorative sono state appannaggio esclusivo del sesso maschile.

La ministra, la magistrata, l'architetta. Avete ragione: suona male. Ma non è assolutamente sbagliato. 
Dal punto di vista grammaticale queste forme sono totalmente corrette.

Per esempio la parola sindaco è composta da una radice sindac- e una desinenza che serve a esplicitare il genere e il numero, che sarà -o per il maschile, -a nel caso del femminile. La lingua, quindi, lo permette.
Altre sostantivi che presentano invece una desinenza in -e generano il femminile cambiando l'articolo davanti (il giudice, la giudice).

 

 

L'apparenza è che sia la grammatica a frenare questi usi per ragioni di carattere morfologico e fonetico, ma in realtà il limite non è nella lingua, ma nella società.

È una questione che riguarda inevitabilmente la parità di genere, ma tocca anche problemi più generali. Non è certo un termine invariabile a determinare la discriminazione delle donne sul lavoro, se dobbiamo imputare le ragioni di questa inferiorità vanno di certo ricercate altrove e a partire da altre cause. La lingua riflette la società.

 

 

Sostanzialmente la lingua (o meglio il suo uso diffuso) si rifiuta di riconoscere l'accesso delle donne a determinati ruoli professionali. E seppure qualcuna potrebbe obiettare che preferisce essere appellata al maschile, resta il problema della mancanza di espressione linguistica per designare quella particolare sfumatura. Insomma evitando di usare queste varianti impoveriamo la nostra lingua.

Il rischio è che questi tabù linguistici rendano la lingua sessista.
Il ripetuto occultamento linguistico non fa altro che convincerci della presunta scorrettezza della nuova variante, rendendoci restii ad accoglierla nel linguaggio comune.

In alcuni casi le motivazioni sono di carattere sociale e culturale. È il caso della avvocatessa, termine usato dall'Ottocento in senso svilente e denigratorio, sinonimo di incompetenza, al quale oggi si preferisce avvocata, che si sente privo di tutte quelle sfumature caricaturali. Notiamo come le cose non sono andate così per dottoressa o professoressa.

 

 

Dicevamo, non è solo una questione di sessismo della lingua. Non siamo così ingenui da credere che appellare le donne con il corretto nome professionale possa portare cambiamento anche nella loro considerazione lavorativa. Il percorso per l'eliminazione delle disparità è lungo e periglioso.

Non è un capriccio, e nemmeno una questione di principio. Appellare una donna con un titolo di genere maschile intende che quel ruolo è riservato agli uomini. L'uso di forme femminili e maschili invece, contribuisce a sottolineare la parità e identifica inequivocabilmente il soggetto.

 

 

Non possiamo non riflettere sull'importanza del linguaggio, sull'influenza che le parole esercitano sul nostro modo di pensare. La lingua plasma il pensiero. E quindi perché non partire da qui, dall'uso consapevole, personalizzato e rispettoso delle parole, per contribuire a una più adeguata rappresentazione sociale del ruolo della donna?

Perché anche noi donne possiamo essere eroiNE.

 

 

Alessia Grimaldi
#Bio

Nata in campagna e trapiantata in città, è una fervente amante delle metropoli contemporanee di grattacieli e possibilità. Una (quasi) laurea in Lettere, Alessia ha mille passioni e ne scopre di nuove ogni giorno. Ama leggere romanzi americani scritti bene, mangiare pizza e scoprire nuove band. Mal sopporta la banalità e finisce semprele frasi degli altri. È l’amorevole mamma di Daisy, un bulldog francese testardo tutto graffi e coccole. Nel tempo libero gestisce, insieme a suo fratello, la pagina Instagram Shotz of Italia sulle bellezze naturali del nostro paese, nata per gioco, ora fonte di soddisfazioni. Le sue doti multitasking entrano spesso in conflitto con le ventiquattr’ore giornaliere.